lunedì 1 luglio 2013

Morire vecchi

E poi ti ritrovi in un letto, con un catetere piantato in corpo e un armadio beige davanti. È questa la fine che fanno i vecchi, o almeno una buona parte. 
Vivi la tua vita e, se sei fortunato, t’innamori, non sempre però; a volte ti scegli un partner soltanto per non passare la vecchiaia da solo: speranza inutile. Cresci, maturi, lavori, ti spacchi la schiena, litighi, fai figli... e invecchi. La vecchiaia è inesorabile, come le tasse.
Gli anni passano e cominci a vedere la pelle che cede, le braccia che diventano una specie di vela e la faccia che cola verso il basso. Non puoi più salire una scala senza avere il fiatone o camminare troppo a lungo. Ti sembra che il mondo vada avanti veloce mentre tu resti immobile, sospeso nel tempo.
I giornali sono scritti troppo in piccolo e non capisci come funzionino tutti quegli aggeggi tecnologici da cui i nipoti non si scollano mai. Ti dicono: “È facile, prova”, ma tu sai già che dopo due secondi dalla spiegazione dimenticheresti tutto.
Non vai più in ferie perché il pensiero costante è: “E se mi sentissi male?”. Niente mare, niente montagna. Soli in città, nel mini appartamento popolare. Vedi gli alloggi a fianco al tuo svuotarsi; vecchi come te che vanno in ospedale per un malore e non tornano più. Senti le urla oltre i muri, badanti arrabbiate e figli alterati. Sai che accadrà anche a te, ma quel momento pare sempre lontano.
Poi il tuo partner muore. All’ultimo ricovero cede, si lascia andare, e ti lascia andare... andare verso la vecchiaia, senza nessuno vicino.
Arranchi, sopravvivi, lotti con il tuo corpo.
Comprare il pane all’angolo diventa un dramma, un’operazione angosciosa, e la stanchezza non ti dà scampo. Ti lasci andare, resti sul divano, incarichi i figli.
“Prendi la pensione. Vai a fare la spesa. Pulisci la casa.”
Ogni azione è inutile e vuota. Anche ingoiare le medicine non ha molto senso. O forse l’aveva, ma tu l’hai ignorato.
Ora sei lì, in quella stanza vuota. La vecchia al tuo fianco agonizza e brontola, giorno e notte. Non senti più le gambe, non riesci a usare il braccio sinistro e il destro non arriva dove vorresti. Non ti alzi e non vai nemmeno al bagno. Non riesci a controllare neppure i bisogni primari e ti senti sporco e debole. Ti odi, perché la testa funziona, è l’unica cosa che ancora va bene in un corpo derelitto.
Giovani inservienti ti trattano come se non capissi più, come se non fossi in grado di ragionare e tu, un po’ per accontentarli un po’ per non far fatica, glielo lasci credere.
Osservi l’urina uscire dal tubo di gomma e gonfiare la sacca che ti penzola accanto, poi guardi le coperte beige, beige come l’armadio e il comodino, oltre le bandine che non ti permettono di cadere. Allora pensi davvero che sia la fine, pensi che, tutto sommato, hai fatto male a non credere in Dio. Il prete che passa ogni giorno ti suggerisce di confessarti e tu lo fai. Gli dici tutto, anche di quella volta che hai tradito, anche quando hai rubato per fame, dopo la guerra. Lui ti assolve e ti impartisce il sacramento della comunione. Sembra così strano che qualche parola e un po’ d’acqua santa ti forniscano il biglietto per il paradiso... ma tentare non nuoce, per cui allunghi cinquanta euro, tanto per essere sicuro.
Paradiso o meno, l’unica certezza è che non ti alzerai più da quel letto, non rivedrai più il tuo appartamento, che i tuoi figli stanno già smantellando, e che, forse, non mangerai mai più un pasto decente.
Morirai così, vicino a quel tubo giallo e quell’armadio beige, nel tanfo insopportabile della vecchiaia.
Allora chiudi gli occhi e pensi per l’ultima volta: “Non importa, tanto sono morto da tempo.”

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